Non mi ricordo la prima volta che ti ho vista. Era di certo il primo giorno delle superiori, ma non eri una persona che si facesse notare. C’erano un sacco di ragazze e ragazzi più spigliati e capaci di attirare l’attenzione! Però avevi già fatto capolino dentro di me: un giorno ci siamo salutate davanti al cancello, e io salendo in macchina con papà ripensavo a quanto eri magica, con quella riservatezza- una porta socchiusa su un universo intero- e quegli occhi di un azzurro indescrivibile. Come tende un po’ trasparenti, finestre alle quali avrei tanto voluto affacciarmi.
Ti ricordo nell’ora di biologia, china sul microscopio, sottilmente fiera di avere scoperto che i tuoi capelli erano i più fini di tutta la classe: ingranditi di un centinaio di volte, parevano cavallucci marini, così eleganti, ribelli e così armoniosi.
E poi quella piccola magia, che ho compiuto io nella splendida incoscienza dei miei quindici anni e ha dato origine a tanti incantesimi successivi: eravamo nel pulmino che ci riportava a casa quando ti ho chiesto se potevo scriverti una lettera. Un’idea che mi è venuta così, come dal niente: dopo due ore, avevo già in mano la penna. Quella prima volta, forse, non avevo da dirti un granché; ma quelle poche frasi sono state un ponte attraverso il quale sono passate negli anni successivi valanghe di idee, di emozioni, di esperienze condivise.
Poi è arrivata l’estate, durante la quale abbiamo compiuto i nostri primi passi, io ero il piccolo principe e tu la volpe: stavo sempre molto attenta, ti vedevo fragile e al tempo stesso determinata. Avevo paura di perderti, se avessi fatto un errore.
Il fatto di andare a scuola insieme ha creato un ambiente favorevole, come una serra per due piantine: condividevamo tutto e appena arrivate in classe, con cadenza più che settimanale, ci scambiavamo la nostra letterina. Con le altre compagne, avevamo creato i nostri riti scaramantici per superare compiti e interrogazioni; il sabato pomeriggio partivamo tutte insieme alla scoperta del mondo, ore rubate alla vigilanza protettiva delle nostre famiglie.
E poi c’erano conversazioni infinite, in cui andavamo insieme alla ricerca di quella Verità di cui tanto si parlava nell’ora di filosofia. Ci sentivamo le custodi di un linguaggio tutto nostro.
Ricordo ancora che, l’ultimo anno di scuola, ogni mattina sorridevo al pensiero di trovare tutti voi compagni davanti al solito cancello: eravamo diventati una specie di famiglia, tanto che quando la scuola è finita ci pareva impossibile condurre vite diverse e abbiamo continuato per anni a trovarci ogni settimana.
Così sono passati gli anni, e sono arrivate tante esperienze nuove: nuove amicizie, università diverse. Specialmente, nuovi amori, che talvolta ci hanno spinti lungo strade fra loro lontane. Eppure, ogni volta che non riuscivamo a comunicare e litigavamo avevo la sensazione di privarmi di una parte di me stessa: come se il fatto di essere cresciuta con te ti avesse resa parte integrante della mia carne.
Oramai lo sei, qualunque cosa succeda.
La settimana scorsa ci siamo trovate tutte nella tua città: quattro compagne delle superiori, a ridere come pazze stipandoci per la notte in un solo letto matrimoniale. Pareva di essere tornate a scuola. E che meraviglia camminare e avere ricordi condivisi praticamente a ogni passo: i sandali li abbiamo comprati insieme in Grecia, quella maglietta te l’ho regalata io, questa foto l’abbiamo scattata a Parigi...
Rispetto a quindici anni fa, ti conosco molto meglio: ogni tanto riesco a prevedere come ti comporterai, ho fatto esperienza delle tue infinite risorse e mi sono scontrata più volte con i lati del tuo carattere che meno sopporto: anche questo mi ha insegnato qualcosa. Ho capito che volerti bene non vuol dire dipendere da te, ho imparato a camminare da sola e mi sono resa conto che la mia strada è solamente mia.
La mia speranza è di continuare a condividerla con te, quand’è possibile; quando non lo è, ci incontreremo in un prato, a mezzavia, per raccontarci cosa abbiamo scoperto lungo la via.
PollyAnna
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