L’Endurance, goletta costruita per la navigazione tra gli iceberg, salpò da Playmouth, in rotta verso l’Antartide, proprio mentre scoppiava la Prima Guerra Mondiale. Fu lo stesso Churchill, allora Primo Lord dell’ Ammiragliato, a rompere gli indugi del capo della spedizione, Sir Ernest Shackleton, famoso esploratore, che sentiva il dovere di prendere parte alla Guerra rimandando l’impresa. Frank Worsley era il comandante della nave; ventotto (con un clandestino) gli uomini dell’equipaggio; sessantanove i cani acquistati in Canada e trasportati a Buenos Aires via mare.
La splendida goletta salpò dalla Capitale Argentina, primo scalo del viaggio, diretta all’isola della Georgia Australe: la nave avrebbe raggiunto il Continente Antartico, che l’equipaggio avrebbe attraversato a piedi da Est a Ovest a scopi esplorativi.
Ben presto le vele furono gonfie di un vento che portava un fitto nevischio ghiacciato; la poppa era sospinta da grosse onde, e poco più avanti i primi banchi di ghiacci rallentarono la velocità della nave; ancora oltre sorse la luce infinita del giorno di ventiquattr’ ore, appena interrotto da un brevissimo scomparire del sole. Durante l’incredibile crepuscolo, il vapore si condensava in una pioggia di ghiaccio: milioni di puntine di cristallo cadevano nel chiarore di un cielo fiabesco e si scoprivano infinite forme di vita, insospettabili in quella banchisa desolata: balene azzurre, orche marine, foche, pinguini e sopra albatros, procellarie, rondini…
Più avanti cominciarono a presentarsi blocchi di ghiaccio galleggianti sempre più grossi e pericolosi, iceberg dalla maestosa bellezza. Ora il mare aperto mostrava la sua aggressività implacabile, ora la stretta della banchisa imprigionava la goletta “come una mandorla in una tavoletta di cioccolata”.
E’con una splendida scrittura incalzante, a tratti asciutta come una cronaca, ma nella sua essenzialità affascinante e carica di partecipazione emotiva, che Alfred Lansing ricostruisce un’avventura col fascino irresistibile delle imprese estreme. L’autore si basa su una precisa documentazione, il cui nucleo è costituito dai diari dell’equipaggio, che raccolgono annotazioni per lo più brevi relative alla posizione della goletta, alla forza degli elementi, ai sentimenti personali. Anche questi ultimi vengono espressi in modo essenziale, a testimonianza della forza virile di uomini capaci di affrontare, senza lamenti né esitazioni, situazioni estreme di pericolo: la morsa del ghiaccio, le burrasche, la solitudine totale, il silenzio immane, il gelo dell’ambiente, il tempo fermo, immobile.
La goletta sembrava una di loro: anche lei forte, fiera. A un certo punto, per l’ennesima aggressione dei ghiacci, perse una fiancata, il timone, il ponte. Quasi come una creatura vivente, dura, coraggiosa e fedele, dovette subire e accettare di essere abbandonata. Quando infine fu inghiottita dai ghiacci, la vediamo come un essere palpitante di vita, compagna amata da quegli uomini, forti di quella forza che fa accettare tutte le condizioni e rende capaci di mettersi in sintonia con le cose; gente coraggiosa ma non spavalda, pudica dei propri sentimenti. Ormai privi della loro nave, i marinai fecero in tempo a mettere in mare tre imbarcazioni completamente esposte alla violenza degli elementi.
Tante e tante volte l’equipaggio si accampò e dovette sfuggire a qualche pericolosa crepa del ghiaccio. Tante e tante volte, puntando con le barche di salvataggio in una direzione, si trovò da tutt’ altra parte a battersi contro il freddo, la fame, la sete, il buio totale della notte polare, di cui si sa che si può anche impazzire o morire. Tante e tante volte fu costretto ad affrontare una lotta per la sopravvivenza terrificante, in uno dei luoghi più invivibili della Terra.
Gli uomini fecero quasi l’abitudine al pericolo e smisero di stare “con il cuore sospeso”, come si legge in un diario. La loro vita era calcolata in periodi di poche ore, talvolta di pochi minuti.
L’equipaggio dell’Endurance però era forte come la propria nave, e quel gruppo eterogeneo (semplici marinai e ufficiali, l’artista delle spedizione e il fotografo, gli scienziati e i medici di bordo, il biologo e tutti gli altri) in qualche modo si livellò: le distanze si accorciarono e la vicinanza fisica così stretta, lungi dal creare tensione, fu all’origine di legami di comprensione e di simpatia umana.
Al lettore sembra di vederli, i membri dell’equipaggio: radunati nel magazzino della nave ribattezzato “Ritz”, seduti intorno a un grande tavolo illuminato da un grosso lume ad olio, a giocare a carte o a scrivere il diario nel calore della stufa a carbone; varie volte accampati ora su uno, ora sull’altro dei lastroni di ghiaccio che incontrarono durante il loro viaggio, nell’immane fatica di tenersi tutti insieme; quindi stipati nella capanna costruita nell’isola di Elephant, su quella terraferma tanto cercata ma così aguzza nella sua rocciosità, con raffiche di vento che rendevano difficile reggersi in piedi.
Pare di vederli: uomini che stavano compiendo un’ impresa eroica, mai realizzata prima, ed erano completamente soli di fronte all’ enormità aggressiva e terrificante di un ambiente sconosciuto e ostile.
Sono numerosi i passi del libro capaci di esprimere un’ incredibile grandezza umana, che in quei marinai si manifestava nel saper fare le cose di tutti i giorni mentre intorno a loro si materializzavano di volta in volta il nulla, l’assenza di luce, di calore, di vita, di movimento, la solitudine più agghiacciante o la morte nelle sue forme più spaventose.
Non si lasciavano prendere dalla disperazione ma neppure, quando c’era ragione di essere contenti, da un’esultanza scomposta. Solo una paura vibrante e silenziosa, quasi un’allerta; solo una gioia pacata, proprio per questo più piena e profonda.
La fame e l’assoluta impossibilità di procurarsi, in certi momenti, il cibo costrinsero Shackleton a dare ordine che fossero uccisi i cani, fedeli compagni fino a quel momento. Intanto gli uomini, affranti ma determinati, avanzavano, si accampavano, riprendevano il mare, sbagliavano rotta, tornavano indietro. E aspettavano: aspettavano che il vento perdesse forza, che la banchisa si aprisse, che la deriva li portasse più vicini alla terra. Esausti, fradici, intirizziti, talvolta ammalati.
Eppure l’umore era di solito alto, la volontà ancora protesa a riuscire. Se negli ultimi mesi dell’impresa le immani difficoltà fiaccarono di tanto in tanto gli animi, lasciando spazio a volte ad una muta rassegnazione, ogni annotazione tratta dai diari ha un carattere asciutto, essenziale e pacato e non indulge mai all’autocommiserazione e al panico. “Strano Natale. Pensieri di casa”, annotava brevemente Shackleton il 23 Dicembre 1915.
Gli uomini accoglievano ogni momento della dura missione con la semplice ma eroica accettazione di chi affronta la vita senza volerla cambiare, con una sorta di mansuetudine e perciò stesso di grandezza. Pur al limite della sopravvivenza, riuscivano a cogliere, nel silenzio sospeso e rarefatto del Polo, la bellezza sconvolgente di quel panorama di ghiacci, che parevano camminare sull’acqua.
La forza del loro capo si riversava sull’intero equipaggio, del quale sapeva fare quasi un unico corpo: Shackleton è qui presentato come un uomo dalla naturale attitudine al comando e con un enorme senso di responsabilità. Il suo scopo era quello di vincere nell’impresa, ma soprattutto di portare in salvo tutti i suoi uomini. Era un grande condottiero, “il più grande capo che Dio abbia messo in terra”, scrisse uno dei suoi; il suo ego immane aveva bisogno di imprese mirabolanti per sentirsi appagato. Scappare era per lui un verbo sconosciuto e inutile: gli esploratori si lasciarono portare da questo flusso di esistenza estrema che era stato una scelta nel momento in cui c’era voluta una decisione per cominciare, ma che ben presto era diventato una necessità: una realtà totalizzante cui bisognava aderire con coraggio e follia fino alla fine.
Fu così che Shackleton con i suoi uomini raggiunse la Georgia Australe, e qui Leith Arbour: il porto delle baleniere.
La storia termina in un tono minore, che ha tuttavia del grandioso nel momento in cui chi li credeva tutti morti li vide inaspettatamente arrivare:
”Quando scorse gli […] uomini indietreggiò di un passo e un’espressione incredula apparve sul suo viso. Rimase a lungo in silenzio prima di mormorare: ‘Ma chi diavolo siete?’. L’uomo al centro fece un passo avanti: ‘Il mio nome è Shackleton’, rispose con voce sommessa. Di nuovo ci fu un grande silenzio”.
Qualcuno racconta che in quel momento colui che li aveva accolti si voltò e pianse: un pianto di compassione forse, ma specialmente di ammirazione e stupore per la sublime grandezza raggiunta da quei piccoli uomini solo grazie alla forza di una ferrea volontà.
SteppenWolf